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L’ipocrisia del citofono e del barcone

Scritto da:

Elia Mercanzin

Che differenza c’è tra postare sui social  ripetutamente ed esclusivamente toccanti storie di immigrati condite da sdegno verso i non-accoglienti e il condividere notizie più o meno trucide di performance criminali ad opera di  richiedenti asilo accompagnate da commenti livorosi?

Nessuna. Nessuna differenza.

Alla base c’è lo stesso schema ingenuo e grossolano che fa a fette la realtà col machete.

Lo straniero (del terzo mondo) è a priori “vittima” nel primo caso e a priori “cattivo” nel secondo, salvo rare eccezioni. Questi sono i metamessaggi che chi condivide determinati contenuti veicola, consapevolmente o meno. Due facce della stessa medaglia, insomma.

Qualsiasi sia l’etichetta, si tratta di generalizzazioni e, in quanto tali, fuorvianti e ottuse.

Sì, è ottuso pure vedere l’africano come “buono” di default: stiamo parlando di esseri umani e ogni essere umano è un caso a sé. Ogni individuo ha la propria storia e la propria cultura, le proprie vicissitudini, desideri, bisogni, lacune, ferite, inquietudini e – perché no – squilibri e devianze.

Lo stereotipo del migrante mite, bonaccione, in cerca della felicità che il mondo ricco gli ha negato non è più accettabile del cliché opposto. Anzi, direi che è altrettanto “razzista” perché priva quelle persone dell’identità e responsabilità individuale, come fossero bambini un po’ troppo cresciuti, bisognosi di tutela da parte degli occidentali “buoni”.

Possiamo trattare la faccenda immigrazione fuori dalle narrazioni alla Ozpetek e lontani dalle richieste di esecuzioni sommarie?

Ad esempio, di quelle persone che scendono dalle navi delle ONG noi non sappiamo nulla.
Come si chiamano veramente?
Chi sono?
Da dove vengono?
Che storia hanno?
Saranno tutti innocui?
Tutti pericolosi?
Metà e metà?
75% e 25%?
95% e 5%?
Una sola mela marcia potenziale in mezzo a tante mele buone che meritano una chance o un bastimento di avanzi di galera?

Non lo sappiamo.

È proprio questo “non sapere” che impone, dalla notte dei tempi o quantomeno da quando controlli di un certo tipo è possibile farli, un filtro ai confini. Non esiste nazione al mondo con le porte aperte indiscriminatamente e illimitatamente. Molti paesi, lo sappiamo, richiedono un visto preventivo; richiedono di compilare in aereo barbosissimi moduli in cui è necessario indicare spostamenti previsti e indirizzo dei pernottamenti. Tutto ciò non è insulsa burocrazia o orwelliana ossessione di controllo: si tratta molto banalmente di strumenti per limitare il più possibile l’ingresso di persone indesiderate o indesiderabili e di premunirsi in caso l’ospite si renda responsabile di reati.

È una questione di tutela nei confronti dei propri cittadini e degli altri ospiti che rispettano le leggi di quel dato paese.

Meglio annoiare e trattenere per verifiche i tanti “buoni” che desiderano entrare piuttosto che trascurare un potenziale pericolo per la comunità. Alla vittima di un crimine interessa poco sapere che il suo carnefice – magari con 10 identità diverse – “è solo una mela marcia arrivata in mezzo a migliaia di buone” soprattutto se poteva essere tenuto fuori dal cesto.

Quindi, l’unico modo per rendere giustizia ai ben intenzionati, agli onesti, ai bisognosi di asilo, è poter distinguerli dalle mele marce quando ciò è possibile.

Per certo, arrivare senza documenti impedisce a monte qualsiasi tipo di controllo e non depone a favore della buona fede degli interessati. Pretendere che identità e provenienze non verificabili siano sufficienti o addirittura che – in ossequio a qualche misterioso diritto all’emigrazione e dovere all’accoglienza – esse siano superflue tradisce fondamentalmente un doppiopesismo ipocrita. Il doppiopesismo di chi a casa propria non si sogna nemmeno di aprire la porta allo sconosciuto di turno che suona al citofono ma che vorrebbe il proprio stato senza confini, senza controlli, accogliente verso chiunque. Una pretesa e una denuncia di “disumanità” che si legge tra le righe di quei post commoventi. Un’indignazione digitale che soddisfa il proprio bisogno di sentirsi “buoni” in contrapposizione ai “cattivi”. Una bontà troppo scomoda da rivolgere concretamente verso il proprio prossimo, gratuita e leggera quando riguarda sconosciuti esotici con cui non si ha e non si avrà nulla a che fare.

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